venerdì 16 febbraio 2018

"CECITÀ” DI JOSÉ SARAMAGO (FELTRINELLI).



Non è facile parlare di un Premio Nobel per la letteratura (1998), men che meno di un’opera letteraria densa, pastosa e complessa, carica di significati escatologici, teologici, filosofici, sociologici, metafisici, come “Cecità” di José Saramago (Feltrinelli).
Con una narrazione fantasiosa, immaginifica, apocalittica, crepuscolare e catacombale, “Cecità” è estetizzata da un costrutto stilistico che determina uno stato ansiogeno e confusionale in chi legge. Il libro è un lungo, interminabile, periodo senza soluzione di continuità - inframezzato da, quasi superflue, punteggiature -  che fonde singoli episodi in una unica storia, dialoghi magmatici in un sola conversazione.  Questo romanzo sembra interiorizzare una frastornante musicalità polifonica ricondotta, nel passare delle pagine, ad una coralità sinfonica.
L’ ironica, sbeffeggiante, tragica voce narrante, interpola l’inabissarsi del lettore verso oscurità inenarrabili non indicando mai i nomi di personaggi antropologicamente ben delineati, sostituendoli con sintagmi e locuzioni composti da metafore di matrice epica latina e greca. Gli aspetti favolistici, fantastici, onirici evocano la letteratura nipponica di Murakami e latino-americana di Gabriel García Márquez: il realismo magico irrompe nella scrittura di Saramago, i cui elementi ultraterreni e misterici si combinano con un realismo sviscerato sino alle più cupe conseguenze.
L’inquieta ars scribendi del Nobel portoghese compare come una risultante della, talora, allucinatoria pittura fiamminga e delle visioni orgiastiche e nauseabonde di alcuni cantici infernali danteschi.
In “Cecità”  sembra di vedere Dante, Brueghel e Bosch, dopo una metamorfosi kafkiana, riplasmati da esperte mani in una scultura costretta ad immergersi in un vortice di parole (o è la letteratura che è divenuta scultura?). Questa plesso scultoreo- letterario impietosamente palesa un ammasso di corpi indistinguibili fra di loro, spogliati non solo dei propri vestiti ma della stessa propria natura umana. Corpi informi deprivati della propria individualità che si trasformano in una massa animalesca di carne, lurida, bestialmente contorta, involuta in direzione di uno stadio primordiale, perché gli occhi non vedono improvvisamente e inspiegabilmente più nulla, salvo una marea lattiginosa. Soltanto una donna, la moglie dell’oculista, continua ad avere il dono della vista, pur dovendo nascondere al mondo questa sua miracolosa deroga al “malbianco” che la circonda. Le quotidiane azioni che agevolmente – e senza che il raziocinio ci si fosse mai soffermato -  ogni persona compiva prima dell’avvento della lattea cecità, divengono ora un esercizio di sforzo erculeo, dirompente nel fisico, nella mente e nell’anima.
L’umanità è privata di se stessa ed esterna la sua putrescenza nel momento in cui muta in massa cieca. L’Autore mostra l’uomo per quello che è nel momento in cui rimane senza luce.  La scrittura prende la forma di masse oscene, terrifiche e disgustose di donne e uomini vittime o carnefici di ogni tipo di ignominia, oramai bestie senza sguardo pronte a nutrirsi impudicamente di rancido e ributtante simulacro di cibo, aduse ad accoppiarsi fra corpi lerci penetrati senza esser visti, assenti fra assenze, senza più alcuna essenza umanoide.  La persona non c’è più perché la negazione della vista la rende ectoplasma a se stessa. La luce è corporea ma il suo venire meno muta la chimica e la fisica in buio dell’anima. Colui che è cieco non lo è solo negli occhi ma, per lo Scrittore, lo è fatalmente anche nella sua interiorità. Chi è cieco dentro vede solo in apparenza, pensa di vedere, invero non vede alcunché, pur non accorgendosene, poiché chi è cieco non vede non solo le cose visibili ma neanche quelle invisibili: il chiaro e lo scuro sono solo due colorazioni fittiziamente diverse di una medesima dimensione del reale.
Le parole in Saramago possiedono una forza animalesca cibandosi della disperazione di chi vuole continuare a vivere. I vocaboli vengono prosciugati dalla volgare ipocrisia di cui l’aggettivazione li ammanta, aggettivi che edulcorando il linguaggio e lo depotenziano di quella primitiva energia interna che lo fa, altrimenti, giganteggiare: “Gli aggettivi non servono a niente, se una persona ne ammazza un’altra, per esempio, sarebbe meglio enunciarlo così, semplicemente, e confidare che l’orrore dell’atto, di per sé, fosse tanto scioccante da dispensarci dal dire che è stato orribile, Vuol dire che abbiamo parole in più, Voglio dire che abbiamo sentimenti in meno, Oppure ce li abbiamo, ma non usiamo più le parole che potrebbero esprimerli. E dunque li perdiamo … L’unico miracolo che possiamo fare sarà quello di continuare a vivere … difendere la fragilità della vita giorno per giorno, come se fosse lei la cieca, e non sapesse dove andare, e forse è proprio così, forse la vita non lo sa davvero, si è abbandonata nelle nostre mani dopo averci reso intelligenti, e noi l’abbiamo portata a questo … Non ha trovato risposta, le risposte non vengono ogniqualvolta sono necessarie, come del resto succede spesse volte che il rimanere semplicemente ad aspettarle sia l’unica risposta possibile.”

Fabrizio Giulimondi


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