mercoledì 4 ottobre 2017

"IL MIO VIAGGIO TRA I VINTI. NERI, BIANCHI E ROSSI” DI GIAMPAOLO PANSA (RIZZOLI)


La produzione letteraria di Giampaolo Pansa, saggistica e romanziera, incentrata sulla guerra civile svoltasi nell’Italia settentrionale nel tragico biennio 1943-1945 e, seppur nascostamente, anche nel periodo successivo, è sconfinata, avendo le sue radici nella propria tesi di laurea pubblicata nel 1959. Il clou di siffatta leviatanica attività di studio e di scrittura che ha segnato un momento dirompente, non per la letteratura, ma per le vicende politiche e storiche italiane, è stato il coraggioso e ruvido libro La guerra dei vinti (ottobre 2003).
Già in precedenza il giornalista aveva cominciato a scrutare la Resistenza dal punto di vista degli sconfitti, dei fascisti. La storia guardata anche attraverso un “binocolo in camicia nera” era motivo di scandalo.
Il mio viaggio tra i vinti. Neri, bianchi e rossi” (Rizzoli) -  ultimo atto di questa corposa opera in più volumi, che accusa un poco di stanchezza per lo scemare dell’energia cinetica letteraria,  pur mantenendo una freschezza linguistica e una scorrevolezza stilistica extra ordinem e “fallaciana” -  “accalappia” il lettore grazie ad un collage di episodi, alcuni tragici, altri ameni, altri ancora di semplice vita quotidiana e amorosa, in cui partigiani comunisti e  militi “repubblichini” pongono  in essere uno scambio di  sanguinaria ferocia e orripilante crudeltà.
La Resistenza viene fatta scendere dal piedistallo del mito per disvelarne la sua belluina inumanità. L’ignominia è bipartisan: prima ha visto protagonisti i nazi-fascisti, poi i contendenti in armi. Qui v’è un aspetto ancora più interessante, già affrontato da Pansa in altri scritti: oltre l’eliminazione fisica dei partigiani “bianchi” (monarchici, cattolici, liberali, ossia tutti coloro che non appartenevano alle forze marxiste, staliniste e leniniste), la persecuzione e i colpi di mitraglietta attingevano persino quei comunisti che non si volevano assoggettare all’ Unione Sovietica di Stalin e, specularmente, i seguaci di Josif, martirizzati con le più brutali torture dai titini a seguito della rottura avvenuta nel giugno del 1948 fra Stalin e Tito, causata dalla scomunica di quest’ultimo da parte del Cominform.
La narrazione è anche in questo lavoro – e ancor  più dei precedenti – in forma dialogica: Giampaolo Pansa si rivolge alla sua alter ego Adele - incontrata già ne La guerra dei vinti e nelle “fatiche” successive -  che diviene una sorta di moglie, compagna di quelle ricerche testimoniali e luoghi macchiati di sangue e di indicibile sofferenza che daranno forma all’improcrastinabile desiderio di verità, così avvertito dall’Autore, su accadimenti coperti da troppo tempo da uno spesso strato di rancorosa fuliggine.
Colpisce il ricorrente – e inaspettato – richiamo a momenti intimi di sapore erotico che coinvolgono giovani ausiliare della Repubblica Sociale Italiana e belle gappiste.
Saggio agro-dolce come una pietanza orientale, con numerose venature di amarcord che sfumano in una specie - forse -  di addio a questo appassionato, accanito e duraturo racconto su quel lembo di storia che ha visto uno stesso Popolo odiarsi e ammazzarsi con terrificante convinzione. L’afflato di Pansa è supportato dall’ inusitato coraggio di dare la parola ai reietti, ai paria, ai lebbrosi italici, alla “schiuma della terra”, ai mussoliniani: “Il sangue dei vinti mi ha fatto incontrare un’Italia che esisteva dal 1945, ma non era scomparsa; aveva soltanto scelto il silenzio … Anna guidava Paolo dentro la foresta dell’odio politico, popolata di fantasmi che la retorica resistenziale e la faziosità comunista avevano vietato di raccontare”.
Mi piace concludere con le stesse parole adoperate dallo Scrittore-giornalista nel terminare il suo libro: “Forse sarebbe utile celebrare questa festa (il 25 aprile, ndr) nel cuore di ciascuno di noi. Compresi quanti si sentono ancora legati alla memoria del fascismo. L’alternativa è di restare divisi in due Italie, sempre disposte a combattersi”.

Fabrizio Giulimondi

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