mercoledì 21 settembre 2016

"LA RAGAZZA DEL TRENO" DI PAULA HAWKINS

Già il cinema aveva ambientato la propria azione scenica in quei “non luoghi” – per dirla con Marc Augé – che sono i treni: uno fra tutti  Zabriskie Point,  la splendida pellicola del 1970 di Michelangelo Antonioni.
La letteratura non è da meno e il vendutissimo psico-thriller della esordiente inglese Paula Hawkins, “La ragazza del treno” (Piemme),   viaggia lungo binari intriganti ed intrigati, avvincenti ed introspettivi.
La verità non è mai quella che si palesa ma è sempre nascosta alle spalle di un  sorriso, rannicchiata in maniera subdola ai piedi di quella  felicità verso cui ogni essere umano protende, che ne è rosicchiata come un tavolo dai tarli: quel  sorriso è falso, quella felicità non è altro che un totem inarrivabile, un simulacro, infettato dalla verità che può avere i contorni della paranoia.
Frammenti di ricordi che riemergono da un vicino passato coperti da uno strato caliginoso di alcol; lampi di memoria decisivi per capire cosa sia successo quel sabato di sangue; sprazzi di reminiscenze ai quali  gli investigatori non credono perché la mente da cui lentamente fuoriescono è di una alcolista cronica.
Tra un déjà-vu e l’altro instancabilmente, caparbiamente, con le pulsazioni cardiache che crescono sempre di più,  la verità può cominciare a baluginare in fondo alla galleria: “Tutto è caldo in quell’uomo, tranne il suo sorriso. Quando ha scoperto i denti ho visto l’assassino che vive in lui”.
Le descrizioni padroneggiano il romanzo: descrizioni puntigliose dei luoghi, dei tratti psicologici dei personaggi e delle loro fattezze fisiche puntellano saldamente la narrazione, mentre l’alcol è la corda ruvida che tutto lega, in un crescendo boleriano di follia. La normalità è solo una apparenza perché l’autentica realtà è fatta di follia e quelli che sembrano sogni non sono altro che l’accaduto, che  trasuda dalla mente come liquidi alcolici dalla pelle: “E’ stato come tastare un muro con le mani, cercando una strada, finché i contorni delle ombre non si sono fatti più distinti e i miei occhi non si sono abituati all’oscurità. Non è successo subito. All’inizio, anche se mi sembrava un ricordo, ero convinta che fosse un sogno”.
Ogni accadimento è fatto di più realtà, tante quanti sono gli occhi che lo osservano, tante quante sono le persone che lo vivono. Coinvolgente e astuta la tecnica narrativa dell’Autrice che descrive lo stesso episodio scrutato dalla visuale di Anna, Rachel e Megan: tre protagoniste, tre realtà differenti, tutte vere, tutte false.
La mattina prendo il treno delle 8.04, la sera ritorno alle 17.56. E’ il mio treno, l’unico che prendo. Tutto qui”.

Fabrizio Giulimondi

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