martedì 20 settembre 2016

"LA PRIMA VERITÀ" DI SIMONA VINCI: VINCITORE DEL PREMIO CAMPIELLO 2016


La prima verità
La follia è stata a lungo considerata una malattia contagiosa. I folli, come i lebbrosi, portano impresse su di sé le stimmate del peccato e se sono così come sono, schifosi e impuri, è perché portano marchiato il segno inequivocabile del male assoluto”.
Non è facile parlare di un capolavoro.
Come si fa a parlare di un agglomerato di bellezza artistica, stilistica e letteraria e di un contenuto che ti strappa l’anima? Simona Vinci è la Donna Tartt italiana, capace di una incontenibile ars scribendi percepibile a livello tattile in ogni  periodo e frase e concetto e idea ed emozione.
Simona Vinci ci ha abituato ai casi letterari, da quando  nel 1997 ha donato al pubblico Dei bambini non si sa niente, tradotto in molte lingue e venduto anche oltre oceano.
Simona Vinci si è vista riconoscere il Premio Campiello 2016 con “La prima verità” (Einaudi),  dimostrando  con questa vittoria che il Campiello ha oramai sopravanzato lo Strega.
La copertina anticipa le storie del libro: una foto dell’artista belga Robin Vandenabeele che ritrae un bambino che potrebbe essere un piccolo malato mentale come  potrebbe essere un fantasma, perché i malati mentali sono fantasmi e quest’opera parla di fantasmi. Uomini abbandonati in manicomi-lager, al pari di quello ubicato a Leros, un’isola greca “senza carattere” nascosta nell’arcipelago del Dodecaneso nel mar Egeo, o di quello a Freetown nella Sierra Leone, o di quelli sparpagliati silenziosamente per l’Italia. A Grugliasco, nelle vicinanze di Torino, v’era una struttura psichiatrica nei cui meandri fu trovata e fotografata una bambina nuda e legata al letto: la  foto pubblicata nel 1970 dal settimanale “L’Espresso” ha accompagnato ossessivamente  con la sua  orripilante e violenta coercizione la stesura del romanzo.
Sono malati mentali, sono fantasmi, sono entrambi, e si proiettano instancabilmente dal passato al presente per far conoscere la verità al futuro, perché il passato è come un fantasma:  “Il passato non si seppellisce e non si decompone, ma continua a vivere, con la sua eco dolorosa e distruttiva dentro quelli che vengono dopo”.
Ma si sta parlando di un romanzo? La linea di congiunzione fra creazione intellettuale, biografia e autobiografia è sfumata e imponderabile come l’orizzonte nel deserto del Sahara dove lungo la linea dell’orizzonte terra e cielo sono fusi in una inarrivabile e inestricabile zona che non è né terra né cielo, né corporeità né sublimazione dell’etereo. Angela che nel 1992 insieme ad altri operatori umanitari e sanitari europei ispeziona il manicomio-lager di Leros, dopo la denuncia di un giornale inglese ed una risoluzione del Parlamento europeo, è l’Autrice? Oppure la Vinci è la ragazzina di Budrio, con una madre disturbata e segni di squilibrio che cominciano ad affacciarsi anche in lei? Oppure è la ragazza con l’amica anoressica che andrà in giro per manicomi italiani e poi esteri, per imbattersi in quello africano e greco? La fotografa Antonella Pizzamiglio che bloccando in una rigida immagine cartacea i pazzi di Leros toglierà il coperchio dalla pentola, mostrando gli inferi ad un convegno di psichiatri ad Atene e, quindi, al Mondo, è forse la Scrittrice?
Sì, inferi e orrore, orrore ed inferi:  è lì che vi inabisserete, vi inabisserete in un baratro da cui si potrebbe non risalire. Entrerete in danteschi gironi infernali percorrendo un incubo da cui non vi sveglierete perché quell’incubo è fatto di realtà, inalterata dal dopoguerra ai giorni d’oggi, una realtà che parte da Leros, per attraversare la Sierra Leone a approdare a Burdio, cittadina  nativa della Vinci nell’hinterland bolognese. Di Leros lo scrittore inglese Lawrence Durrell ebbe a dire: “ Che Dio aiuti chi ci nasce, viene da dire, chi ci vive e chi ci viene a morire…Sono assolutamente d’accordo col poeta Focilide, che usò il nome di Leros per buttar fango su un nemico, per sua sfortuna nato proprio qui”. Leros, la macchia assolata nell’Egeo dove si svolse la battaglia britannico-germanica durante la seconda guerra mondiale  -  come ci è tramandato a livello filmico dal cult americano del 1961 I cannoni di Navarrone (ove erroneamente si parla dell’isola di Keros), - e dove dopo qualche anno quattromila dannati furono inghiottiti, fagocitati, masticati in una Gehenna laica: matti e detenuti politici a seguito del colpo di stato dei Colonnelli del 21 aprile 1967; matti e prigionieri oppositori del regime militare orribilmente torturati nel corpo; matti che hanno visto replicare ed incarnare in Leros il Male Assoluto di Auschwitz,  come vagheggiò già malato di tumore  John Merritt, uno dei primi giornalisti che scoprì le bolge dell’isola greca. Matti: “Lutti, depressioni, fasi maniacali, fobie, disturbi dello spettro autistico, alcolismo, droga. Ansia. Disperazione. Paura e povertà, che produce tutto il resto”.
Un libro che devasta, demolisce, penetra senza riguardi, con implacabile prepotenza, negli anfratti sconosciuti dell’animo del lettore, gettandolo nella  psiche di vittime e carnefici, nella abiezione dell’umano essere: abusi sessuali, pedofilia, incesto, aborti praticati da mammane, usurpazione di corpi e  menti e anime di donne sottoposte al dominio ordinariamente arcigno di mariti e padri e fratelli,  proprietari indiscussi di sventurate, fatalmente anoressiche, inevitabilmente annullate nelle proprie più intime interiorità, ineluttabilmente  suicide, anche senza morte.
La bellezza di un’isola, i suoi colori, con “troppo mare, troppo cielo, troppa aria”, contrastano con  i colori pietrosi, grigi, scuri, anonimi, bui delle strutture manicomiali, delle divise della polizia  torturatrice  militare e degli infermieri, che altro  non erano che disperati o aguzzini o entrambi, senza alcun titolo, bisognosi soltanto di un misero stipendio per mantenere famiglie chiuse anch’esse in un tunnel senza uscita.
E’ un’eco quella che si narra, l’eco di vite non vissute, negate, obbrobriose nel loro sterco, nella loro urina e nel loro vomito, vaganti in altre dimensioni che non possono essere percepite, udite, viste, ascoltate sul pianeta Terra.
“La prima verità” è un titolo rubato ad un verso del poeta greco Ghiannis Ritsos, nascosto nelle vesti di uno dei tanti personaggi le cui esistenze o non esistenze vengono raccontate con impietosa umanità in questo capolavoro. Ghiannis Ritsos è Stefanos, il comunista arrestato, torturato e risucchiato nel buco nero di Leros e della tirannide dei Colonnelli, ma è anche il poeta Stefano Tassinari, a cui è dedicata quest’ opera.
E la poesia si nutre del dramma, ne trae la sua migliore linfa. La narrazione è ricca di interpolazioni poetiche che ci parlano di tragedie e di sofferenze abissali come solo la poesia sa fare. Prosa e poesia che parlano dei figli della guerra e dell’ignoranza, sommersi, affogati in un dolore senza fondo e senza fine, dove Dio è abbinato ignominiosamente a quegli abusi, a quegli aborti, a quelle donne serve che perpetuano la loro schiavitù nelle figlie, cui spetterà  lo stesso immutabile destino a cui non possono  sfuggire.
La poeticità è musica essa stessa, ma la fatica letteraria della Vinci necessita anche della sonorità dei brani cantati da Milva e Dalida e del ritmo del sirtaki.
“La prima verità” è poesia, prosa, fotografia, cinema, musica ma anche pittura, come i tanti Trittici di Hieronymus Bosch, il pittore fiammingo quattro-cinquecentesco che con il suo pennello ha raffigurato visioni terrifiche su cui la mia mente si è soffermata mentre si impossessava di alcuni passaggi del libro.
“Una prima verità” non esiste da nessuna parte: “Tutti i malati di mente, i pazzi, i diversi, gli inquieti, i maniaci, gli psicopatici, gli ansiosi, i depressi, i suicidi, i morti in vita, i mostri, i mattucchini del passato sono qui. Ognuno racconta i suoi bisogni, e i sogni, gli incubi, i desideri, la sua versione dei fatti e hanno ragione perché una prima verità non esiste da nessuna parte”.
La legge Basaglia n. 80 del 1978 con il tempo ha, almeno in parte, spazzato in Italia tutto questo oceanico raccapriccio e i medici psichiatri stimatori di Basaglia hanno consegnato al passato l’infamia ellenica.
Ho smesso di pensare alla disperazione di quei giorni in cui scoprivo un mondo di dolore elementare e solido come un sasso sbattuto sulla testa…La realtà delle cose che accadono non è fatta della stessa materia dell’immaginazione, né dell’anticipazione o del racconto di ciò che è successo ad altri”.
P.s.: La bellezza del romanzo non contrasta con la granitica durezza dei temi in esso trattati e, di conseguenza, ne sconsiglio la lettura ai minori e agli adulti dotati di particolare sensibilità.

Fabrizio Giulimondi

2 commenti:

  1. ho finito ora di leggere il libro di Simona Vinci,che mi si è letteralmente incollato nelle mani,leggere , e vedere in internet le foto fatte dalla Pizzamiglio , l'orrore che questi poveri esseri dovevano subire per l'indifferenza e la crudeltà di chi doveva ,se non curarli,almeno alleviare le loro sofferenze.E'un romanzo-verità potente e agghiacciante.L'ho letto in due giorni , e sono sicuro che mi restrà impresso per molto tempo

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    1. Sono contento che concordiamo sulla bellezza del romanzo (romanzo?). FG

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