lunedì 22 luglio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: UNA STORIA DI REDENZIONE E DI SPERANZA "NON MI AVRETE MAI" DI GAETANO DI VAIO E GUIDO LOMBARDI

“Gli occhi di Pitbull sono accecati dall’odio. Non vedono più.

Io invece incomincio a vedere. Lo vedo adesso il dolore negli occhi degli altri, persino in quelli del Pitbull vedo quel dolore così forte e profondo da renderlo un animale. Un dolore antico come quello che mi porto dentro da sempre anch’io.

Prima non potevo permettermi di vederlo. Ogni volta che per un attimo si accendeva la luce e intravedevo qualcosa, la vita mi obbligava a spegnerla. La malavita. Dovevo essere anch’io un animale, per stare in mezzo agli altri animali. E soffiavo come un disperato su quella dannata fiammella per continuare a rimanere al buio. Ma ora questa luce rischiara tutto. Mi fa vedere”

E’ il finale -  carico di attesa, attesa che sa di speranza, speranza che sa di vittoria, vittoria dell’uomo sull’animale, del chiarore sulle tenebre -  del romanzo autobiografico “Non mi avrete maidi "Gaetano Di Vaio e Guido Lombardi (Einaudi).   A differenza dello scuro  che permane fino all’epilogo del lavoro letterario  di Walter Siti “Resistere non serve a niente”, immeritatamente vincitore del Premio Strega 2013 (e già oggetto di commento in questa Rubrica), “Non mi avrete mai è un inno reale e non simbolico alla possibilità che ognuno ha  di farcela, di non farsi dominare dal Male, di non cedere all’opzione della violenza e del crimine che in certi ambienti e in determinate esistenze è costantemente e imperiosamente presente.

Non mi avrete mai voi della camorra! Non mi avrete mai voi che volete farmi diventare un assassino e con gli  ammazzamenti e con il sangue volete darmi il benessere!

Gaetano Di Vaio oggi è un produttore cinematografico indipendente, ma ieri era una specie di mito della microcriminalità  di Piscinola, nella zona nord di Napoli:  uno spacciatore, un ladro, un rapinatore.

Gaetano di Vaio racconta la prima parte della sua vita con lucida, drammatica, allucinante chiarezza, senza reticenze, senza omissioni, senza omertà. La storia è quella di Giovanni Capone che passa  dal basso dove viveva in un monolocale con altre dodici familiari, alla cella dell’Inferno di Poggioreale, la casa di reclusione partenopea,  dove in uno spazio di tre metri per cinque ci convivono forzatamente in quindici.

Gaetano Di Vaio - Salvatore Capone, sposato con Lucia (all’età di quattordici anni) e con un figlio Antonio, immerge il lettore nell’angosciante e irrespirabile realtà che si vive all’interno di in Istituto che potrebbe ospitare 800 detenuti e che, invece, ne accoglie 2.200; dove alcuni agenti di polizia penitenziaria -  prigionieri loro stessi di quelle mura-  sfogano il loro quotidiano stato di frustrazione adoperando, come se nulla fosse,  ogni genere di violenza contro i detenuti; ove esiste la stanza zero nella quale i tossici in crisi di astinenza vendono massacrati con calci e pugni e dove durante il periodo di isolamento,  a cui gli  ospiti sono sottoposti per la più lieve mancanza, ricevere la visita della squadra della morte è prassi consolidata.

In questo permanente orrore  vi sono sprazzi di umanità  nel gesto di un agente di custodia, Annunziata, che porta un gelato a Salvatore Capone mentre si trovava in isolamento e attendeva la razione giornaliera di manganellate  o in Popo, un omone innocente, imputato di associazione di stampo camorristico a causa di una intercettazione telefonica erroneamente interpretata dagli organi inquirenti,  e poi assolto dopo tre anni di galera ( a Poggioreale!), che presta  libri a Capone e spiegandone il contenuto gli da una speranza, una chiave  di lettura degli accadimenti, gli fornisce una possibilità di adoperare il cervello, di mantenere vivo  l’intelletto, di conservare  accesa una fiammella che possa tenuamente baluginare dentro la  scatola cranica.

Non mi avrete mai camorristi! non mi avrete mai assassini! non mi avrete mai! Salvatore Capone – Gaetano Di Vaio dirà “No!” al capo famiglia di zona e sceglierà un’altra vita, perché l’uomo ha sempre un’altra scelta, ha sempre, un’altra possibilità, ha sempre un altro percorso da poter intraprendere.

Mentre vi incuneerete per i corridoi, le latrine, i bagni, le docce, le celle e gli uffici mostruosi e danteschi di Poggioreale, mentre seguirete le gesta  trasudanti turpitudine fra strada, galera e San Patrignano di Salvatore Capone,  e sentirete l’assenza di umanità dei suoi compari, distrutti dalla droga e annientati dal delitto, galleggiando fra disposizioni di diritto penitenziario e regole “non  scritte” che si impongono fra guardie e galeotti, fra espressioni gergali dialettali (che abbisognerebbero di note esplicative a piè di pagina) e slang penitenziario e delinquenziale, sarete accompagnati come colonna sonora dai brani di Nino D’Angelo, innanzi i Vostri occhi passeranno le scene del film di Nanni Loy Detenuto in attesa di giudizio con Alberto Sordi. Ad un certo punto Vi sembrerà di ascoltare  la canzone Pensa di Fabrizio Moro, mentre il Vostro ricordo sarà intasato dalle  centinaia di scritti su Enzo Tortora e sulla sua detenzione da innocente a Poggioreale, come Poppo.

Un’ ultima annotazione: splendida la descrizione della notte insonne di Salvatore Capone, che deve decidere se mandare una lettera di richiesta di aiuto per la moglie che si stava facendo la fame all’amico camorrista – il che voleva significare consegnarsi all’uscita di prigione mani a piedi a lui – oppure al capitano Onofri per chiedere di ottenere un lavoro intra moenia, per poter così mantenere la famiglia con la paga che avrebbe ricevuto.

La notte ricorda quella manzoniana dell’Innominato nei Promessi Sposi.

Alla fine sceglierà il lavoro, onesto, che rende dignitosa la vita anche di un uomo per  lungo tempo in vinculis,  lo sottrae all'abbrutimento, alla umiliazione, alla promiscuità animalesca, riconoscendo in tal maniera  un senso alla giornata, allo svegliarsi la mattina e all'andare a letto  la sera.

Farà lo scrivano -  lettere e lo scrivano -  spesa…….e poi Salvatore Capone,  in arte Gaetano Di Vaio,  andrà a dormire “perché aveva sonno”.

Fabrizio Giulimondi

1 commento:

  1. Caro Fabrizio, cari Amici lettori del Blog,
    non ho potuto che leggere con grande interesse questa recensione, sia per come è sapientemente scritta sia perché tratta un tema molto vicino ai miei studi e al lavoro che svolgo quotidianamente.
    Credo che questo romanzo affronti due grandi temi della e nella nostra società: la scelta tra una vita disonesta e certamente più comoda e fruttifera e una vita onesta, guidata dai sani principi che, però, costa molta più fatica e spesso è molto meno vantaggiosa economicamente della prima.
    Penso a ciò che uno dei miei docenti di Criminologia ci disse parlando della grande scommessa di noi operatori verso la criminalità minorile, egli diceva: “Lavorare sul campo affinchè i minori autori di reato capiscano, comprendano che è meglio guadagnare 800 euro in un mese con un lavoro onesto, piuttosto che guadagnarne 1000 al giorno soltanto per fare da “cavalli bianchi” (portare le sostanze stupefacenti da uno spacciatore all’altro).
    E’ la scelta tra il buio e una luce, anche piccola. Ma luce.
    L’altro tema che credo affronti il romanzo è quello delle condizioni delle nostre carceri. Condizioni che abbrutirebbero anche un ‘angelo sceso in terra’; la civiltà, il rispetto, l’ordine chiamano e producono altrettanti valori. E’ questo il punto più importante. La detenzione in sé per sé è la Pena in quanto privazione della libertà, tutto il resto è solo ignorare che siamo esseri umani, non bestie.
    Infine, a proposito del rapporto tra “guardie e galeotti”, vorrei menzionarvi l’esperimento che negli anni ’70 il Prof. Zimbardo dell’Università di Standford fece nelle aule sotterranee della stessa Università con la collaborazione di studenti volontari.
    Simulò un carcere con all’interno detenuti e guardie penitenziarie, ruoli interpretati dagli studenti. Già dopo qualche giorno osservò che chi aveva il ruolo di guardia iniziò ad assumere autenticamente comportamenti violenti e sadici, mentre chi aveva il ruolo di recluso diventava sempre più impaurito, sottomesso e rabbioso. Tali reazioni divennero talmente eclatanti da indurre Zimbardo – anche su richiesta dei suoi studenti “interpreti” – ad interrompere l’esperimento molto prima di quanto previsto.
    Tutto ciò per dire che la vita spesso ci pone davanti ad un bivio: lasciarci andare alla brutalità, alla violenza, alla forza del male o scegliere di redimerci ogni giorno scegliendo il sorriso, il lavoro serio, il costruire le cose, l’amore per la vita.
    E’ un dilemma, questo, perenne, poiché quella “bestialità” da noi tanto temuta ed allontanata esiste in ognuno di noi e contrastarla è l’atto più coraggioso e faticoso del nostro cammino verso la Civiltà ed il Rispetto verso l’Altro.
    Fiora Fornaciari, psicologa

    RispondiElimina