giovedì 27 giugno 2013

FABRIZIO GIULIMONDI CONSIGLIA




Ho incontrato Piemontese Pagnanelli, per la prima volta, qualche anno fa. Piemontese … che nome bizzarro! – mi dissi allora. Di lui mi colpì subito la luce che ne illuminava lo sguardo. Uno sguardo puro, “due occhi azzurri che non riuscivano a non sorridere” ricorda il figlio Mauro. L’ho visto, l’ultima volta, una sera d’agosto, in piedi, con la mano in alto in segno di saluto, sullo sfondo verde intricato di un’esuberante passiflora. Sorridente, come sempre. Oggi posso dire che avere avuto la possibilità di conoscerlo è stata per me un’occasione importante di arricchimento, e non solo da un punto di vista prettamente umano, ma anche intellettuale. In Piemontese, infatti, l’uomo ed il fotografo, cosa che non sempre accade, avevano una stessa anima, sensibile, vivace, creativa. Soprattutto, un’anima profondamente generosa. Ed è proprio in quello che significativamente definirei un empatico approccio alla vita si deve ricercare la chiave d’accesso al suo piccolo grande mondo fotografico. Un mondo che, lontano da ogni forma di artificio, predilige la nudità delle cose, delle situazioni più comuni, quasi banali, dei luoghi del quotidiano. “Obbiettivo” di Piemontese non era affatto l’effetto estetico, ottenuto attraverso una più o meno consapevole visione artistica del soggetto, né tantomeno il rincorrere la sempre sfuggente somiglianza “compiacente”, auspicabile se non addirittura indispensabile per il necessario risvolto economico della sua attività di fotografo. Quel che egli voleva era ritrarre la realtà, senza orpelli e senza elaborazioni o mediazioni di sorta: l’umanità così come “è”, colta e fissata attraverso il così come “appare”. Senza nessuna pretenziosa intenzione interpretativa. L’impressione che si riceve nel guardare le fotografie di Piemontese è quella di un uomo che ha voluto sintonizzare il più possibile la sua voce con quella del mondo, in un’ideale convergenza di linguaggi. La realtà, in tal modo, per lo spettatore diventa suscettibile solo a posteriori, nel momento della decodifica, di una individuale e senz’altro più proficua, molteplicità di letture. “Ogni apparire è imperfetto: esso nasconde l’essere - scrive Algirdas Greimas - a partire da lui si costruiscono un voler essere e un dover essere, che sono già una deviazione del senso”. E continua: “Esso costituisce tuttavia la nostra condizione umana. E’ allora malleabile, perfettibile? A conti fatti, può questo velo di fumo strapparsi un po’ e dischiudersi sulla vita o sulla morte, che importa?” Mi chiedo: l’unica opportunità che a noi uomini resta per riuscire a capire gli altri, il senso delle loro vite e di conseguenza quello della nostra, non è allora forse quella di “fermare” il mondo del quale facciamo parte, per cercare di poter afferrare l’oltre della sua essenza nel superamento di ogni deviante convenzione socio-culturale, reso possibile proprio da quello status straniante di “immobilità” che caratterizza l’oggetto fotografato? Con rispetto e “levità”, Piemontese è stato autore di una immane ricerca sociologica, attraverso le migliaia di immagini catturate con la sua macchina fotografica. Non parole ma volti eloquenti di persone vere, materiale infinitamente più stimolante, per comprendere il percorso dell’umanità, di qualsiasi altra teoria scritta. Che dire della sua passione per la fotografia? Sicuramente era grande, pur legandosi nel suo cuore ad un’altra, altrettanto grande, quella per la bicicletta. Una passione, quest’ultima, ereditata dal padre, che con quel nome, stravagante omaggio a Domenico Piemontesi e al ciclismo eroico degli anni di Binda, Girardengo, Guerra, gli aveva segnato un’identità non solo anagrafica. Una passione che, di fatto, lo aveva portato a pedalare in lungo e in largo attraverso l’Italia del dopoguerra, ricca solo di speranze e di tanta buona volontà. Ed è questa Italia a rivivere nelle sue foto. Un’Italia non “in posa”. Quella della provincia, semplice, minimale, laddove questi aggettivi lungi da ogni connotazione riduttiva, fanno piuttosto rima con vera, capace di rimboccarsi le maniche e guardare avanti, costruttiva, fiduciosa nel futuro. Più di qualche toppa sui pantaloni degli uomini c’è, ma con quale dignità indossata! E le donne … quanta poesia è sottesa in quella loro vanità che ingenuamente fa il verso alle belle del cinema! Piemontese si serve dell’obiettivo con una straordinaria leggerezza espressiva. Egli guarda il mondo con la freschezza quasi incantata di chi è intimamente consapevole che la sua armonia è fatta di chiari e di scuri, di bianco e di nero. Senza nessuna concessione al pathos. Le sue foto, in questo senso, sono in-sviluppabili, determinate, concluse, senza possibilità alcuna di qualsivoglia espansione retorica. In un oggi dove tutto grida in tutte le tonalità, grida nel deserto reboanti e ridondanti, che non mettono in gioco la coscienza ma solo abusati automatismi, queste foto colpiscono con il punctum del loro “silenzio”. “Il fotografo, imitando Orfeo, bisogna che non si volga verso ciò che egli reca con sé e mi offre” – scrive Roland Barthes ne “La camera chiara”. E Piemontese, istintivamente, non si volge. Fotografa e va avanti, lasciando che siano i suoi personaggi ad uscire fantasmaticamente dalla carta e a cercarci. Uomini, donne, bambini, che, senza conoscerci, fanno al nostro tempo il dono prezioso di un attimo del loro tempo. Pronti, subitaneamente, a riprendere sotto i nostri occhi l’usuale tran tran del loro giorno. “Passanti”, il più delle volte casualmente coinvolti. Forse un po’ stupiti, ma intuitivamente consapevoli dell’essere così confermati, con quel click, nel loro ruolo di attori, determinati e determinanti, sulla scena della vita. Comunque orgogliosi di essere stati per l’obiettivo del fotografo oggetto di così tanto interesse. Ho scelto il titolo di VITE FOTO GRAF[FI]ATE per questa raccolta di immagini. L’ho ritenuto emblematico ad interpretarne il senso, dal momento che racchiude in un unicum particolarmente significativo sia il campo dell’espressione che quello del contenuto di ogni singola foto. I graffi del tempo, soggettivo ed oggettivo, segnano lo spazio, individuale e collettivo, del vissuto e della rappresentazione che la fotografia di esso è. Il graffio incide e rivela. Mette in luce. Permette di guardare oltre. Vite “foto graffiate”, immagini in cui ogni particolare è la chiave di un breve racconto, strappato al fluire della memoria. Ritratti, scene domestiche, istantanee di strada, dall’apparenza fuorviante di veloci appunti di diario, ma, in realtà, tratti significanti sul negativo del quotidiano. Scatti fotografici che fermano volti, posture, gesti, abiti, accessori, su uno sfondo che è quello dei paesi della valle del Liri nei primi anni ’50. Memoria popolare, l’opera di Piemontese Pagnanelli, monito a ricordare che è proprio dai particolari ai margini che si legge la Storia degli uomini. Un invito ad uscire per un momento dai flutti del tempo e a riprendere fiato, per potersi poi rituffare con accresciuto vigore in essi. Un archivio fotografico che, per lo spettatore, è “pensosa” materia sulla quale soffermarsi.
Franca Tribioli

Il bisogno di recupero scaturisce dalla necessità di ritrovare l’archetipo, ovvero quel bisogno di senso e di coerenza del nostro mito personale, luogo che inconsciamente ci attira simboleggiando i nostri stati interiori e le trasformazioni a venire. Un viaggio mediante il recesso nel più profondo di noi stessi aprendo le porte, provocando tempeste di impercettibile trasformazione verso una certa direzione, svelando il lume vacillante della nostra intuizione. Una sorta di risveglio con una strana sensazione che scorre nella mente, un’interiorità già conosciuta rimasta inspiegabilmente sospesa o forse anche abbandonata in un angolo oscurato e magico dove l’attitudine a compiere piccoli o grandi prodigi, vera chiave dei poteri spirituali, è uno stato d’essere di intensa vibrazione interiore o di coscienza alterata intermedia tra la vita e la morte. Ho selezionato le immagini in bianco e nero, presentate in questo libro, estrapolandole da un più ampio repertorio riprodotto direttamente dalle “pizze” dei primi anni ’50. I fotogrammi, composti da negativi 24x36, sono stati scannerizzati con paziente intervento da Rocco De Ciantis, che ha così bloccato quel progressivo e ineluttabile processo di deterioramento dei sali di argento, reso manifesto da lacune e macchie di varia entità. Questo mi ha consentito, utilizzando gli strumenti della tecnologia informatica, di poter intervenire nel recupero dello spirito delle opere. I negativi originali, che mi sono ritrovato tra le mani, si presentavano parzialmente deteriorati sia a causa delle “vicissitudini” avvenute nel tempo, sia a causa del naturale degrado derivante da interazioni delle parti organiche dell’immagine fotografica e del suo supporto con un ambiente di conservazione non del tutto idoneo. In attesa di un trasferimento di tutto il fondo, che rappresenta un interessante patrimonio storico ambientale e sociale dell’ampio territorio della valle del Liri, in un luogo più adatto alla sua conservazione e valorizzazione, sto, quindi, procedendo ad una graduale riproduzione digitale dei negativi con lo scopo di costituire un archivio che consenta una maggiore fruizione e comprensione storica, artistica e filologica dell’opera fotografica. Tale operazione, attraversando i condizionamenti e le convenzioni dell’epoca e dell’ambiente e, andando oltre la sfera del pratico, attiva quel processo mentale di definizione in cui il momento di un veicolo di comunicazione comincia ad essere un’opera d’arte. L’opera lascia trasparire, ma non ostenta, informazioni che consentono, abbandonandosi semplicemente ed interamente all’oggetto della percezione, di esperire esteticamente il processo mentale sintetico, dove l’osservatore deve ricostruire le azioni che hanno costituito il processo intuitivo estetico originario secondo il concetto di ricreazione.
Mauro Walter Pagnanelli


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