lunedì 18 marzo 2013

"BELLE PER SEMPRE" DI KATHERINE BOO


Belle per sempre“Belle per sempre” del premio pulitzer  Katherine Boo (Piemme Voci editore), è vincitore del National Book Award 2012, il più prestigioso premio letterario statunitense.
E’ un romanzo – documentario, con un utile glossario in epilogo, per stomaci forti e anime non troppo sensibili, di  morte e sofferenza indicibile, di quotidiane infamie contro inermi, di una umanità senza umanità, di uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine che conducono sin dalla nascita una esistenza animalesca.
Annawadi slum di Mumbai, uno dei tanti slum indiani, dove brulica la disperazione.
Anno 2008.
Sono stato in India nel 1981 e ho visto il quotidiano orrore in cui vive quel Popolo. Non pensavo che in trenta anni nulla fosse cambiato, a parte la comparsa della tecnologia, dei computer e degli ipad.
Una famiglia musulmana, gli Husain -  centro di gravità  introno a cui gira il canovaccio narrativo del libro in esame - è specializzata in individuazione, selezione e smercio di immondizia. L’immondizia che sta per strada. L’immondizia che sta nelle cloache. L’immondizia dove ratti immondi e maiali lerci si muovono  e mordono i volti dei bambini, le cui ferite si infettano e si riempiono di vermi.
Abdul Husain è un instancabile raccoglitore e  commerciante di grande valore di lerciume e aiuta la famiglia ad ottenere una leggera miglioria economica.
L’invidia credo sia, fra i sette peccati capitali, il più devastante, perché induce gli essere umani ad annientare  se stessi pur di distruggere l’altro.
Fatima è storpia,   è indù,  è dedita al sesso, per vizio, per rabbia, per denaro e odia gli Husain solo perché sono migliori di lei: la  loro determinazione li ha portati a cambiare in meglio la propria condizione materiale e questo Fatima non può accettare.
Fatima si da fuoco e morirà fra atroci sofferenze attingendo però il suo  obiettivo: rovinare gli Husain, farli incarcerare nelle ignominiose prigioni indiane con l’accusa di averle appiccato il fuoco.
L’innocenza in India viene fatta valere se paghi: tangenti ad agenti di polizia, a guardie penitenziarie, a giudici. Tutto è corruzione. La corruttela e il puzzo dell’immondizia, dei lerci vicoli dello slum, degli animali e degli uomini (non dissimili dai primi) trasudano dai  pori delle pagine. Le sentite. Le vivete. Ne rimanete sconvolti. Gli effluvi maleodoranti e ributtanti aleggiano come un alone mefitico sul e intorno al libro.
Il processo agli Husain -  e la mente vola ai nostri Marò -  si fonda su falsità elevate a diritto. I giudici, i pubblici ministeri, gli avvocati e gli  assistenti giudiziari Vi faranno percorrere un leggero brivido lungo la spina dorsale.
In questa ignominia Abdul Husain è un ragazzo che cerca per il tramite di un  lavoro  da paria (gli intoccabili nella rigida struttura in classi della Comunità indiana, tuttora vigente nonostante la formale sua abrogazione legislativa)  il riscatto sociale della propria famiglia.
In questa normalità dell’ orrore Manju, una bella ragazzina  indiana di quindici anni,  contrappone se stessa alla amoralità della madre, Asha, che incarna in tutto e per tutto i peggiori istinti dei bassifondi indiani (forse anche quelli della high society): la pratica prostituiva, tangenti per ottenere qualsiasi risultato, anche il più comune, anche il più modesto, anche il più giusto; chiudere gli occhi dinanzi anche la barbarie più inammissibile, se non giungono nelle mani rupie, tante rupie, il più possibile rupie.
Manju si sta laureando. Manju insegna ai bambini poveri. Manju non vuole un matrimonio combinato, come la maggior  parte delle bambine e fanciulle delle baraccopoli. Manju non vuole vivere una vita di stupri, violenza, pestaggi di inaudita ferocia, crudeli mutilazioni e umiliazioni, di morte, di visi deturpati dall’acido o dal fuoco. Gli abusi sessuali rappresentano la normalità e non si fermano dinanzi a nessuno, alla età di nessuno, sino alla soppressione della vittima: basta pagare per mettere a tacere tutto!
Mentre ragazzi  vengono ammazzati come se nulla fosse e la causa della loro morte viene derubricata  a “tubercolosi”, mentre i ragazzi vengono devastati da ogni tipo di patologia, mentre i ragazzi hanno fame, tanta fame, gli animalisti si preoccupano dello stato di salute di cavalli e zebre, come denuncia la Boo.
La giornalista - scrittrice narra  storie vere, storie che ha raccolto nella sua lunga permanenza ad Annawadi, storie di moltitudini invisibili e   pulviscolari di  uomini e donne residenti in uno dei tanti slum che sono prolificati intorno alle grandi città indiane nel corso degli anni, zona non-luogo  che dovrà essere demolita al termine del racconto per fare spazio al vicino grande aeroporto internazionale.
I miserrimi  di Annawadi si aggirano in mezzo alla  putrefazione animale e umana (il puzzo di alcuni quartieri di Madras è dopo trent’anni ancora persistente nel mio naso!), nella melma, nel fango, negli escrementi, nella putredine, nell’immondizia. L’immondizia è dappertutto, nelle strade, nelle catapecchie, nei locali dell’aeroporto, negli spazi del tribunale, sulle e dentro le persone. L’immondizia è il vero protagonista del racconto, perché l’immondizia è onnipresente in ogni angolo della vita indiana, dalla nascita alla morte ed è la più importante fonte di sussistenza degli abitanti dello slum, che diventano “cittadini” solamente quando votano. Il voto per i poveri – come ci ricorda  l’Autrice -  è fondamentale perché quell’atto li rende visibili agli altri, li rende parte effettiva  dello Stato indiano: ma anche la registrazione, presupposto necessario ed imprescindibile per esercitare tale diritto, è frutto di contrattazione illecita fra il ras locale  e i disperati di turno. Gli ultimi fra gli ultimi, come li definiva Madre Teresa di Calcutta,   almeno per una volta sola vogliono essere cittadini, uomini e donne, esseri umani, rispettati e rispettabili,  almeno quando pongono la scheda nell’urna.
Superstizione, divinità induiste  e costumi musulmani,  odi etnici e religiosi, guerriglia tamil, azioni terroriste maoiste, guerra jihdista, balli, feste,cibo,  musica e cinema.
ll cinema. La produzione filmica in India è massiccia e gli indiani vedono quel mondo come il paradiso, il riscatto della loro miseranda vita. Il film indiani lunghissimi, colorati, malodrammatici e polpettoni, sono le lenti attraverso le quali i protagonisti guardano gli accadimenti nelle proprie esistenze.
I magistrati, gli avvocati, i testimoni e gli assistenti di udienza del processo di cui sono vittime  innocenti papà e figlia  Husain sono osservati e scrutati   come attori di un film: alcuni se ne discostano, destando lo stupore degli slummers (ma come?  la realtà giudiziaria  è diversa da quella raffigurata in un film?); altri li incarnano, rassicurando gli abitanti di Annawadi (ecco, la realtà è come nel  cinema, perché il cinematografo è la sublimazione della  realtà).
Mai quanto in India,  mai quanto in questa opera letteraria, gli eroi del grande schermo rappresentano una fuga dalla quotidiana aberrazione.
Lo stesso titolo è segno della contraddizione della globalizzata società indi: Belle per sempre è la pubblicità di mattonelle di qualità che troneggia in mezzo a topi e scrofe, in megalopoli ove convivono ricchezza e lusso estremo insieme ad  un terzo dei poveri del mondo e ad un quarto dei denutriti del globo.
La lettura di Belle per sempre mi ha fatto rivivere l’allucinante “passeggiata” fra le strade di Calcutta quando al ritorno nella missione-lebbrosario avevo piedi e gambe ricoperte da liquame nero e gli occhi pieni di  abissale miseria umana e  deformità fisiche.
Belle  per sempre ripercorre quella mia camminata nel luglio del 1981.

Fabrizio Giulimondi


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