venerdì 29 giugno 2012

PACS

    Sollecitato da più parti, a seguito delle dichiarazioni compiute in questi giorni  dai rappresentanti del  Governo francese – in attuazione del programma politico con cui il socialista François Gérard Georges Nicolas Hollande ha vinto le recenti elezioni presidenziali – di voler introdurre nei prossimi mesi per via legislativa la possibilità di consentire l’accesso all’istituto del matrimonio vero e proprio anche alle  coppie omosessuali e lesbiche,   mi accingo a ripubblicare – integrato e aggiornato -  l’articolo intitolato “Una serena – e breve – riflessione sui Patti Civili di Solidarietà (PA.C.S.)”, già  pubblicato su “ Il Mondo Giudiziario” n. 5 del  30 gennaio 2006,  pag.50.
    Mi auguro che questo breve scritto possa essere di Vostro interesse e possa contribuire al dibattito che si sta svolgendo da anni nel nostro Paese  su questo delicato e spinoso tema.

Fabrizio Giulimondi

  

“Una serena – e breve – riflessione sui Patti Civili di Solidarietà( PA.C.S.)”

I PA.C.S. («Patti Civili di Solidarietà»), è un istituto già presente in molti  ordinamenti giuridici europei e, segnatamente:
in Danimarca dal 1989 è riconosciuta l’unione civile fra omosessuali; in Norvegia dal 1993 è consentita la registrazione delle unioni fra persone dello stesso sesso; in Svezia dal 1994 v’è tale riconoscimento, con l’aggiunta dal 2002 della possibilità di adottare bambini, come  in Islanda ove dal 1996 sussiste tale riconoscimento con diritto di adozione dal 2000,  in Germania dal 2001 e  dal 2004 l’adozione, mentre in Olanda già dal 2001 è stato previsto contestualmente il matrimonio vero e proprio fra omosessuali oltre l’adozione di fanciulli,  diritto non riconosciuto in Ungheria che, però, ha consentito  le unioni omosessuali sin dal 1996; in Francia dal 1999 coppie dello stesso o diverso  sesso   possono stipulare in Comune un contratto che conferisce loro gli stessi diritti dei coniugi; in Finlandia dal 2001 all’unione civile fra coppie dello stesso sesso sono stati assegnati parte dei diritti propri dei coniugi eterosessuali de iure; nel Regno Unito il civil partnership bill approvato nel 2004 dalla Camera dei Lord ha attribuito alle unioni civile  omosessuali gli stessi diritti delle coppie sposate; in Lussemburgo nel 2004 è stata approvata la legge sul partenariato, in forza della quale sono assegnate alle coppie omosessuali diritti molto simili a quelle eterosessuali sposate; in Spagna il riconoscimento in questione è arrivato nel giugno del 2005; in Svizzera, infine, esiste dal 2004 una legge federale sulla unione domestica registrabile anche tra  coppie omosessuali, normativa confermata nel giugno 2004 da un referendum popolare.
Per PA.C.S. si suole intendere gli accordi di natura civilistica stipulati innanzi al sindaco, al notaio o ad altro pubblico ufficiale da parte di coppie eterosessuali od omosessuali, conviventi a qualsiasi titolo anche da un breve lasso di tempo, al fine di regolare alcuni aspetti del loro rapporto, segnatamente riconoscendo ai componenti della «coppia» diritti soggettivi di natura patrimoniale e non, similmente a quelli propri dei coniugi de iure.
In primo luogo è opportuno dividere le coppie di fatto in due categorie: quelle che non vogliono e quelle che non possono sposarsi.
Delle prime, non solo è opportuno, ma è doveroso che il diritto non si occupi: l’intenzione dei conviventi è esplicita e chiara, sostanziandosi nella volontà di non legarsi giuridicamente.
Non si comprende, pertanto, la ragione per la quale la legge dovrebbe far loro tale «violenza», creando un legame, sia pure flebile, in forza della stipulazione dei labili PA.C.S.. La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ritenuto che la scelta fra il matrimonio civile o religioso e la convivenza appartiene alla libera autonomia decisionale della coppia e qualsiasi applicazione in via analogica di elementi del rapporto di coniugio alla convivenza può risultare un vulnus a tale libera scelta. A quanto detto si può però eccepire che alcune coppie escludono solo il matrimonio «tradizionale», non altre tipologie di riconoscimenti giuridici.
Se viene richiesta la istituzione dei PA.C.S. è proprio per consentire la fruizione di alcuni diritti — in genere di natura economica — che sono attualmente goduti solamente dalle coppie sposate. Ma la ragione per la quale tali diritti non sono riconosciuti ai conviventi more uxorio è che essi non hanno alcuna intenzione di assumere quei doveri a base dell’istituto matrimoniale, doveri dettagliatamente individuati dal codice civile.
Non si può non definire parassitaria l’intenzione di coloro che pretendono il riconoscimento pubblico della convivenza per ottenere diritti senza ottemperare reciprocamente ad alcun dovere. Si verrebbe a creare un particolare tipo di rapporto giuridico in cui non vive l’ordinaria — e naturale — corrispettività fra diritti e doveri, ma la mera esistenza di reciproci diritti. Fra l’altro una parte dei diritti a cui i coniugi de facto aspirano come coppia possono essere ottenuti con il loro esercizio individuale. Non vi è pertanto alcun motivo per introdurre nuovi istituti nel tessuto connettivo ordinamentale giuscivilistico.
Il testamento è strumento adoperato proprio per trasmettere parte del proprio patrimonio a chiunque, salvaguardando ovviamente le categorie di familiari strettamente legate iure sanguinis al defunto, tassativamente individuate dalla legislazione. Anche il contratto di donazione, unitamente alla costituzione del vincolo nato dalle obbligazioni naturali, vive in seno al rapporto coniugale di fatto. Il contratto di locazione della abitazione di comune residenza può essere stipulato da entrambi i conviventi in modo tale che, in caso di decesso di uno dei due, l’altro possa continuare ad abitare l’appartamento.
È di palmare evidenza che non sia vera la negazione di specifici diritti civili ai soggetti conviventi. La differenza rispetto al matrimonio «tradizionale» consiste nella attribuzione di diritti ai coniugi sposati come «coppia», non quindi solamente uti singulus ma anche uti socius, mentre in caso di convivenza i diritti possono essere attivati solamente uti singulus, ossia esercitati unicamente dai singoli componenti la coppia di fatto. Tale sistema di tutele è coerente con una comunità di vita priva di doveri vincolanti la coppia.
Passando a trattare delle coppie che non possono sposarsi, è opportuno precisare che esse possono essere suddivise in due sotto-categorie.
La prima è composta da coloro che non possono sposarsi per impedimenti transitori di ordine legale, come la minore età o l’attesa della sentenza di divorzio. Per queste coppie l’offerta dei PA.C.S. risulta essere senza senso. Gli ostacoli giuridici che impediscono il matrimonio impediscono necessariamente anche la stipula dei PA.C.S..
La seconda sotto-categoria consiste nelle coppie che desidererebbero sposarsi, ma, per ragioni primariamente di natura economica, rinviano lo svolgimento delle nozze. I PA.C.S. non risolvono certamente i loro problemi. Queste coppie non vogliono un «piccolo matrimonio», un «matrimonio allo stato fetale», «un matrimonio di serie B», bensì contrarre un matrimonio vero: lo Stato ha il dovere di fornire tutti quegli aiuti economico-sociali, previsti anche dalla nostra Costituzione, atti a superare gli ostacoli che impediscono di contrarre il matrimonio.
Cosa resta delle istanze sociali alla base del riconoscimento dei PA.C.S.? Sembrerebbe nulla. A meno che dietro i PA.C.S. non si celi l’intento di conferire dignità giuridica al matrimonio fra omosessuali, nella sua versione embrionale nella nostra compagine giuridica, legislativa e sociale. Mi permetto solo di ricordare alcune disposizioni di rilievo costituzionale e internazionale che si frappongono con forza a tale animus. L’art. 29 della nostra Carta parla di famiglia e, per interpretazione giurisprudenziale cementificatasi nei decenni, vi è famiglia solo fra un uomo e una donna che, in quanto appartenenti a sessi diversi, sono in grado potenzialmente di procreare e costituire, quindi, un nucleo familiare formato da padre, madre e figli. Sulla stessa lunghezza d’onda sono: l’art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948; l’art. 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950, fatta propria dall’ordinamento italiano nel 1955; e, infine, l’art. 23 dei Patti Internazionali dei Diritti Civili e Politici del 1966.
Alla ontologica sterilità delle coppie omosessuali si vorrebbe far fronte riconoscendo anche a loro l’istituto della adozione. Pare che le consolidate argomentazioni scientifiche provenienti dagli psicologi della età evolutiva  che affermano la assoluta necessità della presenza di genitori di sesso diverso per una corretta e sana crescita del bambino non scalfiscano le granitiche convinzioni degli «ideatori dei PA.C.S.». Solamente il padre (uomo) e la madre (donna), essendo portatori di una sensibilità, di esperienze e di una fisicità diverse ma nello stesso tempo straordinariamente complementari, sono in grado in maniera unica ed irripetibile di arricchire il patrimonio della personalità, della psiche e del carattere del figlio nella delicatissima fase della crescita. Non posso che condividere in pieno quanto affermato dal prof. Francesco D’Agostino, Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: «Siamo tutti testimoni che si è aperta una partita decisiva… che ha per oggetto la famiglia e attraverso la famiglia la stessa identità umana. La famiglia chiede di essere difesa: ma per difenderla non c’è bisogno di argomenti teologici o religiosi; bastano comuni argomenti umani, perché ciò che la famiglia tutela e promuove è innanzitutto il bene umano».

Prof. Fabrizio Giulimondi

Nessun commento:

Posta un commento